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 Dori Ghezzi incontra Zucchero - “Chocabeck“ il nuovo album di Sugar



Dori Ghezzi incontra Zucchero
“Chocabeck“ il nuovo album di Sugar





(Publiweb) -

di Dori Ghezzi

Arrivano a distanza di pochi minuti. Lei, professionalissima, con le domande sottobraccio e gli occhialini da professoressa al collo, lui scapigliato come sempre, incuriosito dal trovarsi di fronte, nei panni dell’intervistatrice, una cara vecchia amica.

In sottofondo, le canzoni di “Chocabeck“, il nuovo album di Zucchero, danno lo spunto per un rapido giro di danze. L’ultimo momento di intervallo prima dell’interrogazione.
Perché hai accettato di farti intervistare da me?

>Perché tra le persone che posso definire amiche tu sei la più genuina.

Vedi, Dori, in questo periodo avverto forte la nostalgia del calore umano che ho respirato da bambino a Roncocesi, il mio paese natale a due passi da Reggio Emilia.

In quel mondo, mio zio, maoista convinto, si preoccupava che pure il suo avversario di tutti i giorni, il prete, avesse sempre qualcosa da mangiare: «Adelmo, dai, portagli quattro uova». E io consegnavo.

Negli ultimi anni e nell’ultimo disco hai scelto di esprimerti con un linguaggio meno aggressivo, più sfumato. Canti di spose, suore, pane, granai… Una scelta ricorrente («Diamante») e controcorrente.

No, un’esigenza fisiologica, vista la deriva violenta dei nostri tempi. La distruzione la lascio volentieri cantare ad altri, io celebro la vita.

In Chocabeck ho recuperato il suono della domenica del villaggio, l’allegria delle campane a pranzo. So che alcuni sindaci vogliono zittirle. Bravi, così rimarranno solo i rintocchi a morto.

>E il sesso? Da un po’ di tempo non lo canti più come una volta. Viene il sospetto che fosse più presente nelle canzoni che nei tuoi pantaloni.

No, guarda, io sono uno all’antica e ho sempre amato un certo tipo di fatica fisica.

Detto questo, è vero che nei miei pezzi la sessualità goliardica ha lasciato spazio alla sensualità. Che, l’ho scoperto tardi, regala grandi soddisfazioni.

Fabrizio De André cantava: «Duve gh’è pei gh’è amù». Ovvero, dove c’è pelo c’è amore. Come dargli torto?

Io, a 11 anni, sono rimasto scioccato dalla «baffona», come la chiamano nella Bassa padana. Tutta colpa di una ragazza col caschetto biondo, come te, che girava per il paese in bicicletta con una minigonna micidiale.

Un giorno mi chiede aiuto per gonfiare le gomme e così, mentre io sto pompando come un matto, lei si china e, all’improvviso, per la prima volta, mi appare la «baffona».

Una roba forte, che mi ha segnato per sempre. Ecco perché non voglio nemmeno sentire parlare di depilazione totale: non è proprio la mia tazza di tè.

>Hai avuto due figlie, Alice e Irene, prima di diventare famoso. È stato difficile fare il padre nel mezzo della gavetta?

Abbastanza. A 25 anni non avevo una casa e nemmeno un contratto discografico. Passavo dal lunedì al venerdì a Milano bussando alle porte di tutti. Ma non mi voleva nessuno. Tornavo in famiglia per il finesettimana sempre più scoraggiato e preoccupato.

È stata dura. Per me e per loro. Suonavo nelle balere per mantenerle. Tutt’altro film quando è nato Blue dalla relazione con la mia attuale compagna, Francesca (Mozer, ndr). Era il 1998 e la vita girava per il verso giusto già da molto tempo.

>Si dice che Francesca abbia imparato molto bene il mestiere di compagna di un cantautore.

Per forza, ti consulta in continuazione per sapere che cosa deve fare e come si deve comportare…

>Sono però convinto che tu abbia ancora molto da insegnarle.

Quando mi accusa di essere troppo duro e sarcastico, le dico: chiedi a Dori che cosa significa stare con uno davvero pungente e spigoloso.

>I caratteri difficili sono il sale di un rapporto, l’antidoto alla noia. Ma torniamo a te: quando hai capito che ce l’avresti fatta?

Dopo due Festival di Sanremo in cui nessuno s’era accorto della mia presenza, avevo perso tutte le speranze.

Nel 1985, grazie al successo in radio di Donne, ho ripreso coraggio e ho capito che almeno m’ero guadagnato la possibilità di fare un altro disco.

Il tuo primo incontro con Fabrizio: che cosa ricordi di quella festa?

Che eravamo seduti di fronte a un party mondano. Non posso dimenticare il suo disagio. Continuava a mugugnare: «Belin, belin, ma che c… ci faccio io qui?».

A un certo punto passa una signora molto bassa e Fabrizio: «Belin, ma hanno invitato anche i nani da giardino?». In quel preciso momento ho pensato: «Voglio diventare come lui».

Sempre la stessa sera sei entrato in contatto con Eric Clapton.

Me l’ha presentato Lory Del Santo, che era una mia fan. Dopo qualche settimana mi ritrovo Clapton in camerino ad Agrigento che mi propone di aprire i concerti del suo tour europeo. Pensavo mi stesse prendendo in giro, invece era tutto vero.

>Come si è evoluto il tuo proverbiale panico da palcoscenico?

Ma stai scherzando? Non c’è stata alcuna evoluzione. Prima di uno show io soffro da morire. Già dal mattino sono vittima di attacchi di panico micidiali. Poi, una volta in scena, tutto passa e inizia a scorrere l’adrenalina.

Prima o poi tutti facciamo i conti con il fattore fede. Che rapporto hai con la dimensione spirituale della vita?

Un rapporto strano e non organico, come credo sia normale per uno cresciuto fra il sacro e il profano.

La mia infanzia è stata caratterizzata da due mondi fortemente contrapposti: la sede del Partito comunista e la chiesa dove suonavo l’organo, non per vocazione, ma per fare un piacere a un sacerdote soprannominato «don Tagliatella».

Oggi avverto dentro una forte spiritualità, ma non sono un praticante e forse nemmeno un credente nel senso stretto del termine.

>Esiste un luogo che per te è sinonimo di raccoglimento e pace interiore?

È esistito ed era a due passi da casa mia, in Lunigiana. Un angolo lungo il fiume dove portavo le bambine a fare il bagno quando erano piccole. A pochi metri dall’acqua, in mezzo ai cipressi, c’era una chiesetta abbandonata da tempo immemorabile.

Desideravo con tutte le mie forze entrarci, ma l’ingresso era sbarrato da un catenaccio e da un lucchetto enormi. Avevo provato a forzarli con una sbarra di ferro, ma senza successo. Fino a quando, un giorno, mi decido a fare un tentativo con la chiave d’ottone che apre il lucchetto della Harley Davidson.

In un attimo le porte si spalancano: tra quelle mura diroccate, davanti a un altare spoglio, ho sentito una vibrazione bellissima, qualcosa di profondo, molto difficile da descrivere. Ero estremamente felice di avere trovato la mia chiesetta, avevo anche la chiave d’accesso.

Ci sarei tornato spesso, ma dopo pochi giorni hanno cambiato la serratura e a quel punto ho rinunciato.

>Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, che cosa vai cercando ancora in questa vita? Sei un uomo felice?

Sarei un gran bugiardo e un blasfemo se dicessi che in questa vita mi manca qualcosa: famiglia, carriera, salute, stima dei colleghi internazionali.

Tutto vero, ma questo non significa assolutamente che io viva in pace e in armonia con me stesso, che non debba tutti i giorni fare a botte con i conflitti che si annidano nel mio cervello. E sono tanti, credimi.



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